Even mine



Sembra difficile farsene una ragione e, talvolta, si approccia la questione con tanti giri di parole, tante teorie e tanti discorsi puramente teorici. Per quasi sei mesi è quello che ho ampiamente fatto anch’io. Tutte le storie finiscono Cicci cari, ma questo lo sapete perché ve l’ho già detto.
Ciò che stavolta voglio aggiungere, è semplicemente questo: “Tutte le storie finiscono, anche le mie”. Non credo ci sia bisogno di chiarirlo se mi leggete da almeno un poco più di qualche mese: la mia storia durata tre anni e mezzo, e di cui pure ho scritto (sebbene assai poco ed assai raramente) in questi anni, è finita. È finita ma è la prima volta che lo scrivo, perciò forse è davvero la prima volta che lo dico a me stesso con forza e con quel senso di compiutezza che dovrebbe esser proprio di ogni chiusura. Non c’è neppure molto da dire, non credo almeno. È finita, per tanti motivi, tante cose: private, perlopiù, perciò abbiate la buona grazia di non fare domande. È qualcosa di nuovo per me: questa presenza, questo legame, questo reciproco passato.
Questo modo, cioè, di dirsi reciprocamente che le cose sono finite e che l’altro, sebbene presente, in quel modo particolare ed unico appartiene alla sfera dei ricordi.
Ho sempre vissuto quest’aspetto in maniera quasi leopardiana: credere cioè che il passato, per quanto doloroso, sia comunque migliore del presente: il buon Giacomino, ahimè, non ha però vissuto una storia d’amore, altrimenti la sua visione sarebbe radicalmente mutata.
Non si può vivere per sempre nel passato. Non si può perché la vita intera è amore e perché vivere nel passato di una storia è come vivere in un passato altro e alieno. Permanere in quello che era uno stato di grazia, nella consapevolezza di non poterlo riavere (non a breve termine almeno), è vivere nell’immutabilità di una condizione permanente. Permanente, certo, ma né immortale, né eterna. Perché l’eternità è eterna presenza, non eterno passato e tantomeno eterna visitazione del passato. Vivere una storia cambia, nel presente, ma chiuderla lo fa altrettanto. Questa è davvero la condizione che si dovrebbe continuare a vivere, quella della chiusura. Non come stile di vita ma come presa d’atto necessaria per andare avanti.
“Mi apro alla chiusura” direi, citando il Silente di J.K. Rowling. Mi apro alla possibilità che una storia possa finire, che possa essere la mia e, dopo aver fatto ciò, accetto che la mia sia finita.
Per quanti segni questo possa lasciare addosso, è doveroso. Non c’è gusto, infatti, ad essere dei porfirogeniti, non c’è gusto a venire al mondo nella porpora, se non per vedersela strappata di dosso dalla vita. Del resto, nella fossa si scende nudi proprio per questo motivo: perché dando amore, e ricevendolo, ci si è lacerati le magnifiche vesti quanto più si poteva; per il dolore, o per coprire le ferite dell’altro. Ciò che resta da fare, pertanto, è solo abitare la propria vita, e tutta, nel presente. Non come perenne persistenza esclusiva nel momento ma come unico modo per vivere davvero, ed interamente, l’esistenza donataci. Mi apro alla chiusura ed alla speranza.

Vostro, Claudio


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