Il primo abbraccio... e tutti gli altri


Pensavo agli abbracci. Da dove vengono gli abbracci? Chi li ha inventati?
A cosa servono? E a che, chi li ha inventati, pensava servissero?
E poi, l'ultima domanda, ricordate il vostro primo abbraccio?
Le altre domande non mi occorrono, non ora, non oggi. Ma l'ultima, l'ultima mi illumina e raggiunge una consapevolezza piena: quella degli "abbracci significativi".

Nella vita, ognuno è stato abbracciato un numero considerevole di volte e, a sua volta, ha abbracciato un numero considerevole di volte. Si abbraccia una persona per tanti motivi: per dirle addio o per averla ritrovata; per esprimerle amore (in tutte le sue forme); per un riflesso incondizionato che, così spesso, ci porta a cingere improvvisamente una persona senza un motivo apparente.
Si abbraccia per tanti e diversi motivi, insomma, eppure non posso fare a meno di domandarmi: quanti di questi abbracci sono veri? Quanti di questi abbracci sono veri nelle intenzioni? Quanti, cioè, sono stati dati con la consapevolezza di voler dare (o di star ricevendo) un abbraccio?
Ritengo che, oltre il fine implicito nell'atto, l'atto stesso abbia una profonda valenza. Non ci sono animali sulla terra che posseggono la capacità, sì come l'uomo, di abbracciarsi donando ad un atto semplice un significato. Altri animali, certo, si abbracciano: per difendersi, per paura, per proteggersi dal freddo, per cibarsi spulciando il proprio partner. Anche gli animali si abbracciano, certo, ma non per abbracciarsi.
Pensavo agli abbracci. Oggi ho ripensato agli abbracci della mia vita, a quelli dati, a quelli ricevuti.
Non ho pensato semplicemente agli abbracci, ho pensato a quelli significativi.
Il primo abbraccio della mia vita, lo ricordo bene, mi è stato dato con le mani.

Non ero un bambino, non ero piccino, ero un liceale spaventato che non aveva idea di cosa gli stesse accadendo.
Il mio primo abbraccio è legato al giorno del mio primo attacco di panico.
Buffo come due cose, la prima cosa bella e la seconda così terribile, buffo -dicevo- come due cose così distanti ed antitetiche si siano ritrovate quel giorno.
Era la terza o quarta ora di un venerdì di un freddo fine Settembre.
Il ricordo nella mia mente è vividissimo: l'ora di latino e l'inizio di una spiegazione che non riuscivo a seguire, il respiro, il cuore, le mani, la testa, il petto, lo stomaco. E poi il 118, l'infermieria, il panico dei professori, il lettino sul quale stavo io, statua del giovane che ero. E poi lei...
Mi sia concessa questa piccola parentesi perché, guardando alla vita mia, quando si giunge a decisivi punti di svolta, c'è sempre una donna ad attendermi sulla soglia, c'è sempre una donna ad accompagnarmi a quella soglia...
Lei era vestita d'arancione, il giubbotto catarinfrangente, ed entrando aveva capito tutto. Era riuscita, con un colpo d'occhio, ad accorgersi quale "malattia" mi cogliesse e riuscì, abbracciandomi, a scalfire la solitudine nella quale l'attacco mi aveva gettato.
Chi sa di cosa sto parlando, sa altrettanto bene che è impossibile abbracciare il blocco di pietra che è il corpo di chi è colpito dall'attacco. Ebbene, nonostante questo, lei mi abbracciò. Mi abbracciò con le sue mani, tenendo le mie.
Mani calde, gentili, che seppero darmi la migliore e più certa rassicurazione che le cose sarebbero andate bene, di quante ne ho ricevute in vita mia e di quante ne ricevetti quel giorno, nei minuti precedenti al suo arrivo.
Quello è stato il mio primo vero abbraccio, ma allora non ebbi modo di capirlo.
Lo vedo però, lo vedo e lo capisco oggi. Mi duole averlo fatto solo oggi.
Degli anni seguenti ricordo altri abbracci, non molti ricchi di profonda autenticità.
Ricordo l'abbraccio di un amico, un caro amico, un amico che non è più: anche questo addolora e avvelena il ricordo di quel suo abbraccio. Ricordo l'abbraccio di una professoressa, un abbraccio autentico, vero, che non stava dando ad un alunno ma ad un amico. E in tal modo, terminata la scuola, mi sono sempre considerato nei suoi confronti. Questo lo ricordo perché era strano: mi aveva provocato una strana sensazione l'essere trattato da pari, da una persona verso la quale nutrivo una profonda deferenza ed un senso del sacro che sempre son stato solito attribuire tutti quelli che m'hanno insegnato le Lettere. Ricordo un abbraccio simbolico ma vuoto, che m'è stato dato dall'alto di una cupola. Nell'abbraccio di quella persona, nel suo slancio, nelle sue parole, nel suo stringermi, c'era intenzione ma non autenticità.
Non era un abbraccio autentico e non lo era perché non poteva esserlo, perché doveva accadere che fossi anch'io a desiderare quell'abbraccio in particolare. Beh, quell'abbraccio, vero e autentico, arrivò solo qualche mese dopo. Scambiato con tutta l'intensità e l'ardore della giovinezza, che allora sentivo, e dell'amore. Scambiato nel grigiore di un sottoscala sui cui muri, quel gesto, effondeva una luce calda e rassicurante. La luce dell'affetto.
Quello fu il mio primo vero abbraccio. L'abbraccio vero, autentico, significativo, che per la prima volta io concedevo ed a cui, altrettanto consapevolemente, mi concedevo.
Con quella persona ho contato altri abbracci significativi, altri amplessi.
Quello che ha scatenato questa riflessione, invece, è un abbraccio più recente: quello di un'amica. Uno di quegli abbracci significativi che, certamente, non si dimenticano e che hanno la forza di un uragano devastante dentro di te perché, come avrebbe detto un mio caro amico: "(...) ti prendono alla stomaco, alla pancia. Quando una persona ti abbraccia, sta ragionando con la pancia. Tu smettila di rispondere sempre con la testa". Avete capito? Questo fanno gli abbracci significativi: ti prendono alla pancia, allo stomaco, ti devastano. E tu... tu devi reagire con la pancia, smettere di rispondere con la testa e, se poi ci riesci, metterci dentro anche il cuore. Perché così, in questo modo, quel gesto devastante è il tuo imprinting verso il resto delle emozioni umane, la chiave di volta di ogni gesto d'affetto.
Scusate la caduta di stile, si adatta però bene al tono del mio amico.
L'altro, l'ultimo abbraccio significativo, risale ad appena qualche giorno fa ed è quello della persona che, per prima, ha creduto in me. La persona che mi ha insegnato tutto quello che so e che, a distanza d'anni dalla fine della scuola, continua ad insegnarmi tanto:
la mia maestra.
I migliori abbracci che ho ricevuto nella vita, son sempre stati quelli di cui non ho avuto avviso: abbracci autentici che arrivano all'improvviso.
Il mio rispondere all'abbraccio, il mio esserne consapevole, arriva sempre dopo.
E non sempre arriva.
Sono l'uomo degli abbracci imbarazzati.
Quelli di cui, ricevuti o dati, non ho mai sicurezza: inizio a picchiettare, nervosamente, la mano sulla schiena di chi mi abbraccia ed una strana sensazione di imbarazzo si appropria di me. Lo stomaco sembra comprimersi e trovo strano, sì trovo strano, uno fra i gesti che codificano l'affettività umana, un fondamentale volendo usare un linguaggio sportivo.
Non posso, non riesco e non so dirvi che da domani, avendo ormai consapevolezza di questo, il mio modo di abbracciare, di ragionare "con la pancia", cambierà: non sarebbe vero se lo dicessi. Però ne ho la consapevolezza e, chissà, potrei forse essere a metà strada.

Claudio

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