Canto mongolo



Il treno non si muove. I paesaggi che fino a poco prima si sono susseguiti rincorrendosi, hanno ora lasciato il passo ad un pallido biancore: arranchiamo nella neve.
Non posso allora non pensare, fissando questo tutto che si riduce ad un nulla monoespressivo, ma di una virginea bellezza, che questo è l'unico segno del cielo che non ci ha mai visti in uno dei nostri abbracci stretti. Ho sempre molto desiderato, fintantoché ancora sommavamo i nostri giorni insieme, ho desiderato che questo testimone del cielo ci vedesse così: noi, semplicemente.
Uniti in uno di quegli abbracci in cui non si saprebbe dire il proprio estremo limite, tanto si è formati all'altrui forma. Avrei desiderato la neve ci cogliesse così: candidi anche noi. Pallidi, esanimi per la fatica, avvolti da quei sudari di dolcezza che erano, in quei momenti, le nostre lenzuola.
Talvolta, solevo immaginarci più bianchi della neve stessa: quasi che la nebbia del mattino, entrando dall'ampia finestra, potesse brinare solo toccandoci.
Sembravamo, allora, l'impeto del vento che sferza il monte alto.

Il nostro amore, aspro come il Pamir, solitario quanto le sue vette, gelido come i suoi inverni, robusto come la steppa: allora, baciarti, era come bagnare le labbra nelle acque adamantine del Karakul; percorrere il solco della tua schiena nuda, come cavalcare senza meta per imaginifiche distese sconfinate; giacere insieme, come scaldare le proprie membra intorno al fuoco, al suono d'un canto mongolo. Sei ogni cosa che amo, e che amo perché a te somiglia.
Tu sei la neve e sei il mio canto mongolo.


Claudio





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