In dolcezza: una cronaca


Assisi, lì 6 di Settembre A.D. 2015

Generalmente, non son solito trattare, non direttamente almeno, temi di ordine e tematiche strettamente religiose, ma sapete che ben volentieri e su molte cose solgo fare una eccezione se la ragione o il tempo ben lo richiedono: e tale, infatti, si presenta questa occasione. In Assisi col gruppo giovani di A.C. di cui faccio parte (una realtà fin troppo a lungo trascurata e solo marginalmente accennata su queste pagine), richiedono questi giorni una particolare cronaca che vuole, e deve, trascendere il semplice e stolido raccontare o inventare (ch’è, invece, assai fin troppo tipico di queste pagine) ma neppure cementare con le nuvole concetti tanto astratti da essere meno densi di un cielo d’inverno. Inutile negare che, ad uscite come queste, non si venga già pesati e con la voglia invece di tornare ristorati: chi faccia un poco di vita di parrocchia (o, comunque, chi viva) sa bene quanto i giorni possano essere difficili, duri, aspri al palato, amari, e quanti segni e pesi ci lascino addosso. La cosa non comunemente compresa è che pesi simili non lasciano segni solo sul fisico o sulla mente, ma principalmente sull’anima (questa sconosciuta!): che la vita ci ferisca, lo sappiamo tutti, ma come definire quando questa ci ferisce tanto nell’intimo che, lanciando un profondimetro, non si sappia dire che misura sia quella che manca tra l’urto violento della fine della corda e l’estremo dell’abisso?
Ecco, quando non sappiamo dire che misura questa sia, allora sappiamo per certa essere questa una ferita dell’anima, perché nulla davvero vi è di più intimo. Negare che molti di noi, forse tutti, siano arrivati qui già pesati sarebbe un controsenso ma è invece proficuo dire come la Grazia particolare a cui siamo stati chiamati ci dia, quantomeno, l’umiltà per riconoscere che è l’anima nostra ad esserne gravata. Ebbene, con questi presupposti si può davvero profondamente vivere un’esperienza quale è quella che noi stiamo qui vivendo. Non vi dirò che l’esperienza di Francesco ci ha commossi (sebbene sia profondamente vero) e neppure vi dirò quali meravigliosi dipinti e affreschi ci abbiano visti con la testa alta nella Basilica, o altrove, a mirare simili pagine di bellezza che la fede ha toccato e ravvivato. Tutto questo, sebbene estremamente vero, sarebbe solo una cronaca di quello che abbiamo e non abbiamo visto, di quello che abbiamo e non abbiamo fatto.
Tutto quello che vi dirò, invece, è che qui non siamo venuti a fare assolutamente alcunché. No, se pensate sia questo siete assolutamente fuori strada. Siamo qui perché siamo stati chiamati e radunati; siamo qui perché Qualcuno (che non si chiama Francesco o Giovanni) ci ha chiamato e continua a chiamarci ed a rinnovarci il suo invito verso di Lui.
E se proprio qui, se siamo stati chiamati a percorrere il lastricato di Assisi, non è per la sua bellezza artistica, ma per l’estrema povertà spirituale di cui questa città è così ricca; se i nostri passi hanno calcato quelli del poverello di Assisi, non è per alcuno dei suoi miracoli o per la sua estrema povertà (che tanto attrae chi oggi parla di Chiesa) e neppure per il suo charme così alla moda (che, dirlo proprio di questo santo, è un paradosso per qualunque canone di moda a cui ci si riferisca, odierno o antico) che fascina diabolicamente, no.
Se i nostri passi hanno calcato e calcano e calcheranno (davvero si spera) i suoi, è perché riconosciamo il medesimo passo, la medesima misura d’orma, la medesima fatica nel viaggio e speriamo di riconoscere, anche noi, l’estrema vera intima e sovrannaturalmente sconvolgente verità che amare Cristo, e seguirlo, è più di quanto davvero possiamo chiedere a questa o ad ogni altra vita (semmai ne esistessero).
Perché Francesco ha il nostro passo, le nostre fatiche, la nostra profonda umanità che, specificamente caratterizzata, in lui trovava ragione nell’amore di Cristo ed a Cristo, e che ora trova la sua pienezza nella perfetta comunione con Lui.
Il Francesco giovine che rinunzia, è il modello del discepolo alla sequela: anche quando la strada si fa impervia, anche quando le salite sovrabbondano e per il lungo cammino non possiamo che bere un poco e mangiare a malapena, anche quando nessuna delle nostre idee coincide con la realtà e gli ideali sono sconfessati dal desiderio più intimo che il cuore osa dalle stelle.
Gesù lo disse di Sé, e Francesco lo prese in Parola: “Io sono la
via, la verità e la vita.” Nessuno di noi, lasciando questi luoghi, porterà a casa grandi insegnamenti o filosofie di vita; capiremo piuttosto, quello che abbiamo sempre saputo: che Cristo trasforma, e trasforma la vita come nessun’altro e questo povero di Assisi, ben lo sapeva: «ciò che mi sembrava amaro, mi fu cambiato in dolcezza d'anima e di corpo».
In dolcezza, prenderà Cristo la nostra amara vita e la “cambierà”. In dolcezza.

Claudio

"Servo, 'a coppa pe' le dita: subito!"

"Bono l'antipasto, il resto?!"

"Oddieeee!"

"Sorridi, tieni il sorriso, tieni!" "Eh, ma la mascella!"



"Er marchese der Grillo, me faceva 'n baffo!"
"Fa' ' na posa fica Giovà, che Facco ci sta a prende!"
"O"


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