Life-watching


Neologismi, neologismi, neologismi. Se ne inventano così tanti ogni giorno, da quando è nata la Rete, che oggi mi permetto di coniarne uno io: lifewatching. Non so se sia davvero un neologismo o se, invece, un tizio qualunque nel mondo abbia già pensato a coniarlo, ma è così. Negli ultimi tempi, le mie incursioni sui principali social network sono notevolmente diminuite, tanto da far preoccupare alcuni: qualcosa in stile "Ehi, ci sei? Batti un colpo!" Anche tre, se volete. Ci sono, ci sono eccome, solo che sono saturo. Per millenni abbiamo vissuto in una società in cui la trasmissione di notizie avveniva con i classici due canali: la scrittura e la tradizione orale. In un certo senso, però, ambedue queste forme sono accomunate dal fatto che la trasmissione dell'informazione è veicolata attraverso la parola: stampata, scritta o raccontata. Neppure la pittura o la scultura hanno potuto radicalmente minare le solide basi su cui questa forma mimetica era posta. Negli ultimi cinquant'anni però, complici le derive decadenti al limite del nichilismo relativista della filosofia, l'imporsi dei mass-media (la radio prima, la televisione ed il web poi) ed una trasformazione radicale ma che, complessivamente, è stato un mutamento soft in una delle forme mimetiche prima citate (la scrittura, intendo) è nata quella che oggi definiamo la società dell'immagine. Talvolta, usando questo termine, sembriamo così intendere solo le esperienze strettamente estetiche e le loro conseguenti ricadute in ambito culturale, dimenticando che "società dell'immagine" è molto più di questo. L'esempio più eclatante dello sviluppo di questo tipo di società credo possa essere, effettivamente, l'affermarsi di forme mimetiche di tipo visivo che più della parola, si è pensato, possono ben esprimere la realtà: verrebbe subito da pensare alla cinematografia (con un occhio di riguardo, per l'Italia, al cinema neorealista), ma la vera icona di questo cambiamento è la fotografia. In particolare alcuni "giornali" e riviste (mi sovvengono "Life magazine" o "National Geographic") hanno assegnato alla parte visiva un'importanza sempre più preminente, spingendo il lettore (il consumatore di una vecchia forma mimetica) a ritenere che la nuova fosse di maggior efficacia per l'espressione di un concetto e che desse, poi, maggiore incisività alla narrazione. Shackerate tutto questo, ed unitelo ai cambiamenti del pensiero, ed otterrete quella famosa frase che dice che "un'immagine vale più di mille parole" (citazione che, ormai persa nella rete, mi è impossibile verificare): ecco, quella citazione è la piena presa di coscienza che un nuovo tipo di società era nato. Negli ultimi anni poi, con l'accelerazione che la Rete ha dato al tutto, siamo bombardati dalle immagini tutti i giorni. Immagini di ogni cosa e da ogni parte del mondo. Su questo si può dire davvero di tutto: che le immagini abbiano aperto al sentimentalismo e relativismo e cancellato i grandi valori ed ideali e contribuito al crollo delle verità, che hanno ammazzato il settore editoriale e, in generale, ucciso un'intera forma mimetica. Davvero, si può dire questo ed altro, ma non è questa la conclusione a cui voglio arrivare. Volevo invece riprendere il discorso da dove, solo apparentemente, lo avevo bruscamente interrotto per cambiare verso e dirvi, quindi, che è di questo tipo di società, e di questo tipo di vita che sono stanco. Sono stanco di essere bombardato di immagini, e non mi interessa quanto siano positive o negative, ne sono semplicemente stanco: per cui, se proprio volete trovarmi, chiamatemi! Comunque, l'enorme immenso discorso non serviva a dire solo questo. Come avrete notato (vi basterà per farlo, fare una ricerca sul web o cambiare un canale del televisore) il mondo della società dell'immagine è diventato un'enorme vetrina in cui tutto è esposto, una sorta di televisore, di banchetto da cui poter scegliere ogni portata perché ogni giorno ci viene dato in pasto di tutto: i social network, rappresentano l'apice di questa forma esclusiva e personalissima di scelta. Sui social network, generalmente, si incontrano tre tipi di persone: gli appuntati, gli Instagrammers ed i life-watchers. I primi due sono abbastanza comprensibili: persone, cioè, che usano i social per fini strettamente tecnici (farsi dare gli appunti dell'università, rimanere in contatto con tizi o caii o sempronii che non si sentono da tempo, e finalità simili), o per mostrare ogni aspetto della propria vita (dal pranzo, al colore del vomito durante una malattia) usando ogni genere di espediente o filtro fotografico per rifilare una propria opinione su come vada il mondo. L'ultima categoria, però, è quella più difficile da inquadrare: somiglianti assai agli "appuntati", i life-watchers sono persone che non scrivono la propria vita ma preferiscono osservare quella degli altri. Si scelgono la propria vetrina preferita e, come in una sorta di perverso "Grande Fratello", osservano gli altri vivere: li invidiano, vorrebbero imitarli, vorrebbero essere come loro o avere quello che hanno loro. Vivono, insomma, in funzione di quanto gli altri vivono, come una sorta di organismo parassita ma nutrendosi non della vita stessa delle persone, ma dell'immagine della loro vita. In perfetto stile Voyeur, traggono piacere (un piacere quasi erotico ma, vista la mancanza della componente sessuale, percepito forse come più accettabile e meno pericoloso) dall'osservare gli altri vivere, senza però che questo dia loro la spinta a vivere. In una sorta di circolo vizioso, destinato a terminare in un baratro paralizzante, nemmeno l'invidia che provano porta loro a cercare di vivere. Penso che chiunque fra noi conosca almeno una persona di questo genere. Ecco, per il suo bene, staccategli la connessione e fatelo vivere! Adesso, torno a fare l'appuntato, mi richiamano in caserma! (Scusate, la tentazione della battuta era troppo forte!)

Vostro, Claudio

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