La terra dura


- Che fischi? -mi dici con quell'aria di divertita curiosità e sporgendoti colle mani sul tavolo che mi sta innanzi. Una posizione tanto solenne quanto grottesca è l'aria che hai assunto facendomi la domanda.
-Il Largo dall'Inverno di Vivaldi, Don. Mi piace molto, è curioso perché somiglia alla pioggia. Aspetta che te lo faccio sentire, è veramente breve.
Tirando fuori il telefono, su questo mi piego intento nel ricercare su Spotify la migliore e più chiara esecuzione prima ed il punto esatto poi.
- Sembra... -dice, un labbro serrato sull'altro, lo sguardo in alto, e poi mordicchiando brevemente il pizzetto prima di riprendere a parlare- ...molto dolce, sembrano tante goccioline d'acqua che scendono dall'alto.
E, mimando il gesto con le mani, mi dai noia al collo, ben sapendo che soffro il solletico.
Di rimando, mi giro per fartene anch'io e fendo solo l'aria.
Un rumore, un tonfo.
Un armadio si apre e voltandomi ancora ti rivedo lì, fisso nella tua imperitura giovialità attaccato, forse non per caso, al centro di una cornice troppo affollata. Mi si palesa allora, come uno spettro, la tua assenza, mentre adagiato sul fondo della stanza arancione mi stringo tra le braccia appoggiandomi al termoconvettore su cui, pure, hai fatto scrivere "Non appoggiarsi".
Non riesco ancora a parlare di te come di un evento passato; non riesco ancora (nonostante un saggio consiglio) a trarre un insegnamento dalla tua vita e dal nostro rapporto, qualcosa di unico da conservare per il futuro per "elaborare il lutto" ed evitare la malinconia.
Non riesco, perdonami, non riesco a vederti seduto tra la gloria dei beati e solo per fede so che il bene che qui si riversa è il frutto del chicco che muore.
Intanto sto qui, appoggiato al fondo della stanza fischiettando Vivaldi, sperando che tu entri a chiedermi che cosa sia, perché nessun altro lo fa.
Un armadio si apre, ancora.

Claudio


Inverno - Largo 37:21

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