Lettera all'ultima Donna che verrà


Carissima Donna che verrai,

ti scrivo nuovamente, non avendo ad oggi mai ricevuta una tua risposta.
Ti scrivo, perché l’illusione di averti trovata mi aveva fatto già diverse volte sempre più speranzoso e le speranze, in questo nostro tempo, hanno la sorte della neve al sole.
Ti scrivo, per quell’insistenza che dovrebbe scavare la pietra e piegare persino le volontà più ferree;
ti scrivo, per quella musica primaverile che suona questa mia corda in cerca del suo contrappunto.
Ti scrivo, all’apice della mia esperienza umana che non trova sponda nel vissuto;
ti scrivo, per questo cuore che cerca la sua corrispondenza e fissa nel mondo la tenda dell’attesa.
Ti scrivo, mentre impasto il pane e colgo il miele, rendendo fecondo il tempo che ci separa.
Ti scrivo, perché gli anni mi nascondono ancora il mistero più grande: quello custodito
dal tuo nome.
Se nei giorni addietro potevi presentarti come un’ombra nebulosa stagliata contro l’aria brillante e dal tuo profilo scorgevo e sognavo non solo il tuo volto ma quelli che da noi sarebbero proceduti, ora affievolisci lentamente e da me arretri e ti allontani mentre io non posso altro che afferrare la nebbia nella quale ti dissolvi e che disvela la pienezza della tua mancanza, portata come si dovrebbe il cuore sulla manica.
Ti cerco, e nel cercarti che ormai di me fa parte, chi mi porta un affetto stretto riconosce quanta pace mi darebbe trovarti e quanto equilibrio lo smettere questo inseguimento di vani riflessi cangianti.
Sarebbe però ancora mia la vita che smettesse questa affannosa ma feconda ricerca?
Ah, se tu venissi e spezzassi il mio passo!
È te che cerco? Oppure in questa mia ricerca mi sono perduto in me stesso?
Quanto stolto sarei se mi fossi appassionato a questa impresa smarrendone la meta?
Certamente più di quanto ogni parola mai scritta sarebbe capace di dire: convinto di fissare il fuoco del mio affetto e delle mie attenzioni su di te, sarebbe così ingannevolmente fatuo scoprirti venire dal lato di una via dalla quale mi aspettavo di vederti alla fine.
È un viaggio complicato, nel quale la mia corda sfibrata ti cerca senza posa ed i miei vetri offuscati indagano il presente non senza meraviglia e svagatezza.
Ho talvolta l’impressione che non trovarti sia il prezzo fin troppo alto che pago a quest’esistenza che ben conosce quale sconfinato vivere sarebbe l’incontrarti: come una presenza perenne e rassicurante posta all’incrocio delle vie preferite del proprio cuore e che volesse eternamente lì restare e discorrendo perdersi; e così vivere, in un moto relativo che disegnasse per noi soli un tempo all’interno del tempo.
Devo sperarlo, cara donna. Devo sperare tutto questo, perché le parole che abbozzano i tuoi tratti non potranno mai darmi l’amorevolezza che precede, come il saluto la persona, i tuoi occhi.
Devo sperarlo, cara donna, perché il mio passo si fa greve e temo che la stanchezza possa trovarmi prima che io ritrovi te.
Devo sperarlo, cara donna, perché al volto che ti dà il nome sono oggi legate le promesse di felicità sussurratemi mentre venivo intessuto nel ventre materno.
Devo sperarlo, mia amatissima, perché trabocca e ribolle d’un incontenibile bene questo muscolo che segna il tempo prima e dopo te, ed in te trova il riferimento del suo battito.
Stento persino a rammentare da quanto questa attesa prosegua; e quanto lunga ancora debba essere, lo sa quel Dio che noi preghiamo e nella cui preghiera siamo accomunati dal medesimo intento: che si avvicini cioè il momento in cui ci rivedremo riflessi negli occhi dell’altro.
Quel giorno, che vedo avvicinarsi, sapremo dal passo dell’altro la sua presenza, vedremo nel Sole
un compagno della nostra felicità, nei fili d’erba un tappeto nuziale.
Al limitare della vigna in cui ti vedrò danzare, sotto aranci e limoni, ci scambieremo le promesse sacre: una pioggia di zagare sarà il tuo velo, modestia e onestà il tuo abito, la fede ti cingerà due volte il dito, la castità i fianchi voluttuosi. Come perle, la Gioia ti donerà le lacrime: farà di te la gemma ed il castone.
Il tuo serto, dalle gemme di purissimo cristallo, annuncerà fin lungi la nostra santa unione ritraendoti al mondo spettatore d’un aura circonfusa.
Avanzerai col candore di chi abbia colti dei gigli nel campo e se ne venga portandoseli in grembo.
Quando, infine, ci avranno fatti della stessa carne, troveremo solo allora nelle nostre mani strette il più compiuto amplesso mai esperito. Tanto che la Luce sola troverà uno spiraglio per vivificare la nostra vita.
Allora, il nostro letto avrà il colore del mosto e la nostra gioia il sapore di una benedizione: le risa che non udiamo ancora saranno il nostro pentagramma e nel nostro comporre sapranno guidarci le mani.

§

Se questa fosse una profezia, mia amatissima, non dovrei ora lasciarla cadere come faccio. Non dovrei volgermi sconsolato a quanto fin qui scritto con la fortissima tentazione di cancellare ogni parola fino a bucare lo schermo. Ma lo faccio.
Perché il tempo a cui sembro fare più caso, quasi mai riguarda la mia stessa vita. A meno che non mi bagni i piedi.
La pioggia è diventata un pretesto per un poco poetico otio, le giornate solo somme infinite di ore riservate alla mie dissonanze interiori, i miei minimi atti meri gesti di autoconservazione.
Avrei voluto, come più volte fatto in passato, rintracciare negli avversi fati e nella perplimente contingenza una qualche attenuante che davanti al tribunale della mia coscienza sapesse validamente difendermi ma la mia stessa avvocatessa mi accusa di una troppo radicale infedeltà.
Non mi difenderò, amor mio. Perché se tu giungessi ora, non avrei alcuno a cui affibbiare tutte quelle mancanze che forse non mi rendono meno amabile ma certamente ti ritrarrebbero agli occhi un dipinto di me fin troppo crudamente accusatorio, e quanto realistico lo sa Iddio.
Se tu giungessi ora, la mia vita non saprebbe accoglierti e sprecherei l’occasione che una sorte benigna pare accordarci forse una volta soltanto.
Se tu giungessi ora, vedresti nell’uomo che sono solo la pallida imitazione della promessa di quella visione.
Ma se tu aspettassi, rimirandomi in disparte come soltanto chi porta autentica pazienza saprebbe fare, se tu aspettassi…oh!
Se fossi disposta a corrompere il tempo e comperare per noi questa felicità!

Non posso prometterti che ne saresti ripagata e che, stanca dell’attesa, fattati finalmente prossima, io ti riconoscerei e ti accoglierei come per lunga promessa.
Posso però prometterti che alla nostra causa ho asservito ogni mia fatica, alla tua ricerca ogni mio sforzo, al progetto di noi tutta la mia profana devozione.
Posso prometterti che alla vita ed all’amore ho dedicato un tempo, che ora mi bisbiglia sommessamente nell’orecchio e mi rimprovera di non averti ancora promesso solo il rispetto che fin dalla tua generazione meriti.

Tuo, con amore incommensurabile, Claudio




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