Mal di Gerusalemme
Latina Scalo,
a sei giorni dal ritorno dalla Terra Santa
Quando
sono arrivato a Gerusalemme, grande è stata la delusione allo scoprire che
quella città non mi offriva alcun tipo di risposta oppure di orientamento verso
le domande che, insistentemente, Le ponevo da molto prima di cominciare il mio
pellegrinaggio: ogni dissonanza mi si poneva innanzi lungo le giornate che mi
si preparavano, ogni mia idiosincrasia, era risolta nel ripetere a me stesso
“Quando arriverai a Gerusalemme sarà tutto diverso, quando arriverai a
Gerusalemme ognuna di queste fatiche ne sarà valsa la pena, quando arriverai a
Gerusalemme ti saranno date le risposte alle domande che da lungi poni a Dio.”
Come se Dio fosse più vicino a Gerusalemme che a Roma oppure in un buco
sperduto come Latina Scalo e come se la Città Santa fosse un amuleto oppure
un’indovina alla quale porre domande: pensiero magico e, per ciò, infantile.
Così facendo,
certamente ho potuto sopportare tutto quanto mi si poneva innanzi ma quanto,
invece, ho perso? Sfogliando le fotografie, ancora una volta mi si è palesata
tutta la mia invincibile ignoranza: luoghi, deserti, monumenti e, solo
incidentalmente, persone.
Neppure la laicissima lezione che vado dicendo di
aver capita da tempo -cioè che “niente è importante, se non la vita”-
sembra davvero avermi insegnato qualcosa.
Ho sprecate giornate nel capire cosa
Dio volesse da me, ponendogli sempre le stesse domande, e non vedendo invece
per quali volti, quali esperienze, quali vite condivise, Egli mi forniva invece
sublimi risposte.
Quando ho deciso di porre attenzione a ciò che aveva da
dirmi, mi sono reso conto di quanto avessi sin lì perso, di quali giornate a
schivare le vite altrui per paura non già di contaminare la mia ma che questa
potesse altresì essere risanata dal prossimo mio che il Padre Buono mi poneva
accanto: ho attraversato il deserto parlando di arte, come solitamente
attraverso la vita ragionando su cosa sia.
Esistono
lezioni che possiamo imparare se non vivendole?
In Osea, nel
deserto Dio parla al cuore del suo popolo “Perciò ecco, l’attirerò a me, la
condurrò nel deserto, e là parlerò al suo cuore”: che succede se invece si è di
dura cervice?
Ho capito,
davanti alla mia povera volontà che pur facendo un passo avanti si ripiegava
poi su se stessa, che
Lui ha preferito guardare all’intenzione con la quale mi ero proposto e
riproposto: così mi ha dato il Tabor, mi ha dato fratelli e sorelle di cui
essere responsabile, ha scelto un Suo linguaggio per parlarmi. Mi ha fatto
forza ed ha prevalso ed in chi non aspettavo di vedere neppure un compagno, ho
trovato altresì un amico. Come si fa a descriverne la gioia?
La gioia di avere
fratelli nello stesso Padre, come la si descrive? Vorrei averlo capito o saputo
dimostrare durante quei giorni: mi piacerebbe conoscerlo, il sapore di una
gioia sana e vissuta, senza la necessità di chissà quale profonda meditazione
al riguardo.
Mi piacerebbe
più che saperne delle vite altrui, complicarmene: “val
forse qualcosa soffrire per una ragione che dipenda da un altro essere che ci
sia di aiuto, che ci corrisponda?”
Me lo chiedevo non molto tempo da ora e
senza apparentemente aver afferrato la lezione del Getsemani prima e della
Croce dopo che gridano, a gran voce: “Sì, per il fratello, vale il mondo
intero”.
Perché, alla
fine, dopo essere arrivato nella Città Santa ed aver mollato bagagli ed affanni
per accorrere al Sepolcro del Cristo, non sono potuto entrare se non insieme a
chi tanta parte di quel percorso l’aveva attraversata con me: correre al
sepolcro, arrivare primi, osservare le bende, non equivale a sapere come
entrarne. Persino il Vangelo è chiaro al riguardo.
Il mistero
della vita che si fa resurrezione non lo si capisce mai da soli: tocca, sì, la
vita personale; la interroga, la scandalizza, la scardina ma poi esige che la
si ravvivi dal Cenacolo in poi.
La vita di
chi muore e risorge con Cristo, parte dal calore ristretto del Cenacolo e si
apre per necessità al mondo: una preghiera efficace, quando lo si sperimenta, è
quella di chiedere a Dio di potersi accorgere di quei momenti di grazia
particolare dove essere pochi ha il sapore di quelle parole che Gesù rivolge ai
discepoli -“Venitevene
ora in un luogo in disparte e riposatevi un poco”-
e di saperli vivere nella loro pienezza.
Riposare col
Maestro, confortati dai fratelli che hanno e conoscono le stesse fatiche, è un
raro privilegio: io l’ho sperimentato l’ultimo giorno. Ho inseguita
instancabilmente una pace che faticavo a trovare, salvo poi accorgermi che era
sempre stata lì, accanto a me: era con me nel campo tendato di Mamshit
(che somigliava più a Falluja nel 2003, per essere onesti), era con me al muro
di separazione a Betlemme, era con me attraversando Korazym,
alla mensa Christi di Tabgha, sul mare di
Galilea ed in una serata bacchica gerosolomitana.
E si chiamava Pietro,
Alessio, Zaira, Matteo, Chiara, Bernardo, Lucia, Maria Giulia, Alessandro, e
via discorrendo. E mi chiamava col mio nome e mi riguardava, incurante di
quante genuflessioni facessi ai piedi di monumenti sacri, croci ed ostensori, e
più mi riguardava e più mi innamorava.
Tanto da aver trovato un luogo, uno
sguardo, una voce sola che si eleva a Dio.
Così,
adesso, di quella pace trovata nell’angolo più lontano dal centro del Santo
Sepolcro, di quella pace raggiunta contemplando la Croce e la resurrezione, di
quel paradosso vivente (specchio del mio medesimo paradosso interiore) che è Gerusalemme,
tutto mi manca: le sue voci, i suoi odori, le sue strade, parlano di una vita
che dandosi si moltiplica. Ed adesso che ne sento male, che ne avverto la
mancanza, posso sinceramente chiedermi, intuendone la risposta, dov’è davvero Gerusalemme?
Claudio
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