Che parole hanno i poeti stanchi?

Miei amati, accade, come sempre, che le cose nella vita inizino irrimediabilmente ad andare per il verso storto contro ogni nostra aspettativa o volontà. Personalmente non do la colpa alla vita, o al Fato, o al Destino, o alla Fortuna, o alla Provvidenza, o a qualunque altra cosa sfugga apparentemente al controllo dell’uomo. Lo sapete bene, credo nel libero arbitrio e nell’assoluto potere di governabilità che l’uomo esercita sulla propria vita. Ad ogni azione corrisponde una reazione che diventa una complessa formula matematica comprendente variabili pressoché infinite nel momento in cui le vite umane si toccano e le loro vicende si intrecciano.
Ultimamente, ve lo confesso, i giorni sembrano diventare sempre più difficili per me.
Sono stanco di molte cose: sono stanco del continuo dualismo in cui questo cuore e questa mente continuamente mi pongono e, di conseguenza, degli amori continuamente sbagliati o poco opportuni, sono stanco delle situazioni altrui di cui vengo caricato ogni volta che faccio ritorno in Terra Pontina, sono stanco di non saper scegliere, stanco di non saper dire di no, stanco per quello che dovrò affrontare e prima ancora che si presenti, sono stanco dei fantasmi che abitano il presente e mi lacerano a poco a poco la mente, stanco delle menzogne. Stanco. Stanco di non essere ciò che vorrei.
Eppure, ogni volta, guardando al passato, devo ringraziare il Cielo per ciò che sono e sono diventato perché Iddio non voglia ch’io sia differente da come sono ora. Toccherei con mano la fatica.
Io non tollero bene la fatica. Non ho braccia robuste o pelle scura e tantomeno la tracotanza di chi dice di sapere cosa sia la fatica o cosa sia il genio che non tocca mai la fatica. Le uniche fatiche che io conosco sono quelle della penna sulla carta, il sudore di ogni pensiero e disperazione, di alcune fra le più basse umiliazioni che atterrirebbero ogni uomo, ma non il lavoro.
Per questo, impropriamente, uso il termine poeta. La mia pelle è bianca come quella della nobiltà che disprezzo e le braccia hanno appena la forza per alzare la penna e scrivere delle proprie sventure. Non ho mai toccata con mano la fatica. So cos’è l’umiliazione, la sventura, l’oppressione, la sciagura e l’accanirsi apparente dei Fati, ma non conosco la fatica del lavoro.
Non so cosa sia una sveglia forzata, l’alzarsi di buon’ora per tirare avanti la baracca, non so cosa sia avere i piedi indolenziti o le mani spaccate, non so cosa voglia dire essere frustrati dalla ripetitività e dalla monotonia di quei grigi lavori d’ufficio che fanno onore a chi li compie ma li getta in un abisso di frustrazione; non ho la più pallida idea di cosa sia la responsabilità.
Le mie fatiche sono prove di forza della mente e verso la mente ma che non forzano il corpo in alcunché. Non ho pretesa di definirmi “poeta” (se lo facessi, infatti, chi prima di me sarebbe stato chiamato poeta come dovrebbe essere nominato? genio? demiurgo del logos?), e mi scuso per averlo fatto con chi giustamente può fregiarsi di questo titolo. Se ho usato questo titolo è per la totale mancanza di empirismo che alcuni riscontrano nel linguaggio e nel vissuto dei poeti (vedi vignetta), cosa errato peraltro. Insomma, ho utilizzato un luogo comune per esprimere qualcosa che invece non lo è affatto. E, con buon diritto, mi domando: che ragione ho io per dirmi stanco? Ma, pensandoci su per bene, mi rispondo che non ne ho. Ripeto, non so cosa sia la fatica, come potrei mai conoscere la stanchezza?
Perdonatemi, mi pare di delirare. Vedo fantasmi nelle strade. Ogni volto di donna è il volto di Elisa o quello di Silvia. Sì, Silvia. Dolore che non credo andrà via mai totalmente, ferita che brucia anche rimarginata. Ogni donna bruna, il crine nero e lungo o corto, mi ricorda rispettivamente Elisa o Silvia. E devo vederle in volto, devo battere la testa contro l’irrimediabilità della realtà per rendermi conto che non sono loro perché la prima è troppo lontana e la seconda certo non mi si mostrerebbe apertamente.
Ma il cuore balza, sussulta, arde e si consuma.
Si consuma al ricordo malinconico di Silvia, alla gioiosa immagine di Elisa ed alla confusione che prova per colei-che-è-senza-nome.
Un amore, quest’ultimo, sicuramente sbagliato e poco opportuno.
Meno di quanto lo sia quello per Elisa. Voglio far ardere la cenere. Assurdo.
Ogni parola pronunciata, ad altri o a me stesso, quando detta ad alta voce, mi pare essere una menzogna, quand’anche fosse vera. Ed io stesso faccio ormai fatica a riconoscere sul mio volto il tratto della menzogna e quello della verità. Quando dico il vero? Quando mento? Non lo so più.
E quanto, dicendo il vero, è reale o frutto di una menzogna inconscia? Anche questo, non so.
Eppure sono queste, sono queste le uniche parole che ho. Questo “poeta” (o buffone, giullare, come preferite) “stanco” (per aver troppo pensato) ha queste parole.
Io sono profondamente grato a chi mi attornia della fiducia che mi concede nel volersi aprire a me ma ultimamente, alcune questioni, mi stanno diventando pesanti. Spesso le persone considerano me come membro ormai esterno di una città, o di un gruppo, o di una comunità, e isfogano su queste carni il loro malessere spesso profondo e malcelato. Non sanno costoro che di questi gruppi, di queste comunità, di queste città da cui mi credono fuori, io sono invece pienamente dentro. Fosse anche solo affettivamente.
E le loro preoccupazioni diventano mie e alle mie proprie si aggiungono.
E queste preoccupazioni sono sofferenze immani. Come portare il peso di tante vite, o quantomeno di tanti brandelli di vite, sulle proprie spalle.
Spalle non adatte alla fatica.
Sono solo un uomo stanco che di mestiere fa il giullare. A presto miei amati, magari con cose più gioiose.

Vostro, Claudio


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