Non conosco il tuo nome


In quel momento apparve la volpe. […]
"Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, sono così triste... "
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata". [...]
"Che cosa vuol dire "addomesticare"?" […]
"È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami..."
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me.
Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi.
Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro.
Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo". […]
"La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano.
E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri.
Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla.
E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te.
E amerò il rumore del vento nel grano... " [...]
"Per favore... addomesticami" [...].
"Volentieri", disse il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però.
Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".
"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. […]
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l'ora della partenza fu vicina:
"Ah!" disse la volpe, "... piangerò".
"La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi... "
"È vero", disse la volpe.
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
"È certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".


Antoine-Marie-Roger de Saint-Exupéry    Il Piccolo Principe, cap. 21

§

Non conosco il tuo nome. Pensavo qualche giorno fa a questa verità profonda. Tenevo fra le mani il tepore del mio caffè. Alla fine, sul fondo, ti ho scorta per un attimo. Ti ho straveduta sul fondo del mio caffè, dove solitamente si vede il futuro, non il passato. In quel momento non capii, non capii subito.
Non capii il perché ti avessi trovata lì.
Ero seduto vicino al mio primo amore, nonché mia unica attuale amante (oltre la Letteratura): parlo, ovviamente, della macchinetta del caffè! “Mon amour!”
Non capivo perché. Fissavo le mattonelle scure della sala in cui mi trovavo, continuando a non capire. Risalendo in camera, vidi il libro sulla scrivania.
Non è un libro qualunque: qualche anno fa l’ho studiato a fondo, cercando di “afferrarne” i significati altri. Non sono riuscito a comprendere totalmente, ma il passo da cui quella riflessione era nata, l’ho “afferrato” fin da subito.
L’ho afferrato perché, nella vita, ho sempre sperimentato il contrario.
Sembra buffo a dirsi, ma puoi amare non solo se ti hanno insegnato l’amore, anche se ti hanno riversato addosso l’odio. Apprendere passando per il contrario, per l’opposto, per il diverso, per l’altro. Per ciò che era “alios” dal mio essere, dal mio agire. Così ho capite e sperimentate molte cose.
Guardando il libro, capii quello che in quel fondo di caffè avevo intravisto.
È il passo che si trova all’inizio del testo, il Piccolo Principe, uno dei miei testi preferiti. La volpe parla col Piccole Principe e gli rivela una verità dimenticata: che nulla può essere conosciuto se non lo si è addomesticato, e solo ciò che si è addomesticato si può amare. E l’addomesticare è sempre vicendevole.
E solo addomesticando è possibile creare un legame: così, ho conosciuto di non conoscerti. Capii (la mia epifania) di non averti mai addomesticata e che tu, che io pensavo mi avessi addomesticato, non mi avevi mai davvero addomesticato perché mai, realmente e profondamente, sei stata intenzionata a farlo.
Non avevi mai avuta intenzione di conoscermi in quel modo, eppure io, accecato com’ero dall’amore non me ne accorsi. Non mi hai mai addomesticato, non mi hai mai conosciuto, non hai mai scelto di legarti a me veramente.
Ma, se l’addomesticare è vicendevole, che allora di me? Che poter dire?
Dirò, come la volpe, di aver voluto che tu mi addomesticassi perché, come la volpe, volevo dare un senso ai campi di grano.
Come la volpe, volevo dare un senso ad un ritmo diverso, ad un passo diverso, ad una musica nuova. Come la volpe, volevo amare il rumore del vento nel grano... Come la volpe, volevo che la mia vita fosse illuminata. Volevo. Davvero.
O forse dovrei dire, più correttamente, “avrei voluto”…
Non è stato possibile. Non mi hai mai addomesticato…
Perché, allora, io non ho addomesticato te? Per lo stesso motivo per cui tu non mi hai addomesticato: non volevi, non ne avevi intenzione, non volevi si creasse un legame. Non si può addomesticare chi non vuol essere addomesticato: come la volpe, anche tu avresti dovuto chiederlo.
Non posso sbagliare, allora, nel dire di non conoscerti e che tu, davvero, non hai mai conosciuto me: non hai mai davvero voluto.
Quando facevo le superiori, il primo anno, ricordo di essermi imbattuto in un testo sull’ebraismo. Questo testo, breve, diceva una cosa interessante: Dio non viene mai nominato durante la lettura della Scrittura. Mai.
Al Suo posto si preferiscono altri sinonimi, altre parole, ma mai il Suo nome. Perché? Il mio professore di religione di allora mi spiegò che tutto dipendeva dall’appartenenza: l’uomo poteva dare un nome solo a ciò che gli apparteneva o che gli sarebbe potuto appartenere, qualcosa o qualcuno su cui poter esercitare un dominio, un possesso. Anche solo il chiamarlo per nome, indicava il dividere qualcosa con quella persona o quella cosa. E l’uomo, l’uomo, questa creatura fragile, che aveva da condividere con il suo Creatore? Lo conosceva forse? Perché il chiamare per nome sottintendeva anche questo, il conoscere ciò che si nominava. Conosceva forse Dio, l’uomo? No, non poteva. Non poteva conoscerLo, “afferrarlo” direi io, e tantomeno possederLo.
Per questo, l’uomo, non Lo chiamava mai per nome.
La cosa mi colpì profondamente.
Ho sempre pensato che, se usassi lo stesso criterio per le persone, non dovrei chiamare per nome alcuno. Forse, non potrei chiamare per nome neppure me stesso, giacché dubito di conoscermi come l’Oracolo indica si dovrebbe.
Comprendi, allora, il mio dirti: “non conosco il tuo nome”.
Non lo conosco, non lo conosco davvero. Noi non ci siamo addomesticati e nessun legame, perciò, ci unisce. Se nulla, allora, ci unisce, e se è vero che si conosce solo ciò che si è addomesticato, allora è vero che io non ti conosco e tu non conosci me. Non ci siamo mai conosciuti e, per questo, non abbiamo creato nessun legame di appartenenza. E se, allora, non ci apparteniamo, come possiamo chiamarci per nome? Non possiamo, non possiamo affatto. Non avremmo mai dovuto, in effetti. Allora comprendimi, ti prego, se dico di non conoscere il tuo nome: se non ti ho mai conosciuta, come posso sapere la cosa più intima di te?
Quella che sancirebbe il mio “possedere”, il mio “aver parte”, alla tua vita:
il tuo nome. Non posso, non posso conoscerlo.
Non perché non ne sia in grado ma, piuttosto, perché non è possibile.
Non è più possibile.

Non conosco il tuo nome. Non l’ho mai conosciuto. Ti ho amata.
Non conosco il tuo nome…

Claudio

p.s. Seriamente, sapevi che Mina ha cantato una canzone i cui primi quattro versi sono: “Io non ti conosco/ io non so chi sei/ so che hai cancellato/ con un gesto i sogni miei”. Non so tu, ma io inizio a preoccuparmi su quanto il suo occhio sia stato profetico, non solo in questo punto, sulla nostra relazione.
Sembra l’abbia descritta a meraviglia, non trovi?



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