M'apparecchio a sostener la guerra... (pt. 1)


I miei amici sono tornati. Ieri. Sì, ieri sera. All'improvviso si son fatti rivedere in chiesa e non mi spiego il perché: non sono rientrati nella casistica che con tanta attenzione e meticolosità avevo esposta a Zippora.
Inutile dire che anche le soluzioni che le avevo esposto non sono valse a molto. La paura ha odore, modi di agire, di parlare.
Paura io ho sentita nell'aria: paura e pietà.
La paura di chi non aveva mai visto e la pietà che non merito, che non voglio perché m'è quasi offesa. E che si smetta di chiamarla compassione: la compassione in quei casi non esiste, si patisce una profonda solitudine. No, quella è pietà! La compassione, umanamente parlando, non ha nemmeno senso: è assurdo pensare di poter soffrire con una persona. Come si può? Come si può capire la sofferenza fisica e quella interiore? Non si può: nemmeno fra chi soffre dello stesso male si riesce a comprendersi davvero. La certezza è la solitudine o la compagnia. Ma non c'è compassione; solo pietà. Ed io, come ho avuto modo di scrivere altrove, marcivo di solitudine fra la gente...
Paura ho sentita e non era la mia, benché fossi piegato non era la mia: non si ha davvero paura quando si conosce il proprio male interiore. Quando si ha paura si perde di incisività nella propria azione, si tentenna, si aspetta, si estingue pian piano la forza che inizialmente ci si era riproposti di adoprare nell'azione. Quando una persona ti tocca e t'avvolge le mani, la senti. La paura che tutta la scuote, la titubanza e la pietà che davvero piega qualsiasi intento di soccorso.
Chi, purtroppo, ha fatto di questi amici triste abitudine ben sa cosa sia tutto questo. Ben sa, il funereo gruppo che s'aduna attorno, come al moribondo.
E anco sappiamo che paura e pietà son normali per chi li incontra la prima volta ed è costretto involontario soccorritore. Sì, si possono capire.
A lungo andare la nostra preoccupazione è per loro, più che per noi. Dispiacere per chi è costretto a tale terribile spettacolo o forse è solo atto d'orgoglio: perché non si può negare che si è esposti e alla pietà e al pubblico ludibrio. L'ultimo vero problema poi, è l'essere considerati come portatori di handicap nel durante. Vero è che non si può reagire o parlare ma tutto si sente, tutto raccoglie la mente. Son strani poi questi incontri nelle chiese: si sta faccia a terra, come prostrati a Iddio, come giuranti fede sponsale all'Eternità. "Ecce sacerdos"- se qualcuno gridasse, non avrei a stupirmene.
Io non posso dire, non con precisione, cosa accadde dopo. No, non per falla della mente ma perché essere più chiaro mi costerebbe la tranquillità che ho guadagnata su questi colli ridenti.
Zippora mi tenne compagnia nelle ore successive: opera di convincimento cercò inizialmente di fare ma si scontrò contro il muro della mia risolutezza. Mai più l'alchimia di soporifere polveri, mai più l'annosa e sterile riflessione. Non questa volta. Questa volta dichiaro guerra ai miei "amici".
Oggi, perdonatemi, non ho nè cuore nè forza per continuare. Tornerò domani. Promesso.

Vostro, Claudio

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